domenica 28 giugno 2015

Caravaggio: un genio "incolto"


Caravaggio è senza dubbio un caso limite dell'arte italiana ed europea. Pur essendo il più dotato dei realisti nella storia della pittura, la sua arte rispecchia il concetto filosofico platonico secondo il quale la verità delle cose viene intesa come coscienza del mondo. Per Caravaggio tutto è degno di diventare il soggetto di un'opera d'arte; ciò che non viene ritenuto adeguato per i suoi committenti, per lui ha la necessaria dignità alla rappresentazione. La cosa che più lo interessa è distaccarsi dal concetto cattolico della realizzazione artistica, contrapponendo ad esso un'arte fatta di carne e sangue, libera dal falso decoro del manierismo.
Non lascia allievi, poiché non ha una bottega in cui erudirli sul mestiere della pittura; lascia una folta schiera di emuli e di plagiari, una scuola fatta anche di grandi artisti come Orazio Gentileschi, Battistello Caracciolo, il Guercino degli anni Dieci, Bartolomeo Manfredi. Eppure il suo nome resta a lungo nel novero delle eccezioni da riscoprire. Neppure il secolo del realismo, l'Ottocento, trova le condizioni per la giusta rivalutazione del genio lombardo, Ciò è determinato da un certo nazionalismo che in Italia ha preferito attingere al patrimonio sterminato e piuttosto ingombrante del Rinascimento.
E' necessario tener presente, però, che la moderna concezione del binomio arte-vita, come metro di valutazione del talento, nel Seicento non esisteva. Caravaggio riesce a fondere nella bellezza dell'arte ciascuna espressione della natura, e lo fa in nome della sua spregiudicata passione di un uomo, seguendo il suo istinto e non una scuola di pensiero. Ritrae i suoi modelli dal vero, che siano cesti ricolmi di frutta o giovani di locanda esuberanti e ambigui, o perfino se stesso, con un tocco di concreto realismo. lontano dal concetto della messinscena, della simulazione. Non a caso lo sprazzo di luce abbagliante che ne tiene desta la sorte non dura oltre gli anni Trenta del Seicento. Il secolo del Barocco non predilige una certa brutale e sprezzante visione del sensibile. Caravaggio va oltre quella visione, la trapassa, fissa nella concretezza delle cose la vita e la morte, svela come questi due elementi siano contemporaneamente presenti nell'esperienza di un corpo tangibile. In un cesto di frutta vi sono foglie rigogliose e foglie appassite. Ogni corpo è dominato da questi due principi opposti e complementari. Analogamente, nello sguardo trasognato, ottuso, che accenna ad un'ironia appena espressa dal brillio del cipiglio del Bacchino, che sa inequivocabilmente di vita, ma pur sempre di una vivezza disturbante, è contenuta già la causa mortale che ne adombra l'ineluttabile caducità, espressa nel colorito malsano della pelle, nella cagionevolezza pronunciata dalle labbra bianchicce.
Questa visione caravaggesca dell'essere nasce da un tragica consapevolezza, dalla solitudine storica a cui è condannato l'universo sensibile della natura e dei corpi. "Un uomo incolto ma un genio" come lo ha icasticamente definito Alois Riegi, che fu tra i massimi esponenti della Scuola di Vienna. Un genio sopraffatto dalla scienza della verità dell'essere, condannato a cogliere la morte nell'abbaglio più fulgente della vita. Tuttavia, un "uomo incolto" può essere dotato di un acume libero. La libertà intellettuale di Caravaggio è sbrigliata, e certe intuizioni filosofiche, morali, teoriche, hanno modo di sostanziarsi unicamente per via del raziocinio raffinatissimo che ne governa l'occhia e la mano.

BIOGRAFIA




La biografia lo vuole nato a Caravaggio paese tra Milano e Bergamo. Ma più verosimilmente è Milano a dargli i natali nel 1571. Suo padre è Fermo Merisi, "magister" della casa del marchese Francesco Sforza, sua madre Lucia Aratori. La sua formazione di pittore interamente lombarda.
Entra a bottega presso Simone Peterzano, un  tardo manierista devoto ad un naturalismo formale molto diffuso al suo tempo. Presso il Peterzano ha modo di acquisire la tradizione del realismo lombardo che si era andato diffondendo nella prima metà del Cinquecento per opera di artisti come Savoldo e Moretto. Ma più di questi lo condiziona la pittura di Tiziano, di cui probabilmente studia l'incoronazione di spine.
Nel 1590 muore la madre due anni dopo si trasferisce a Roma. Le difficoltà iniziali che incontra, al suo arrivo sono connesse a palesi problemi di sussistenza e al disagio dovuto al suo carettere che mal si accorda con l'ambiente intellettuale vagamente sprezzante della Città Eterna.
Dopo essere passato per le bottegghe di Lorenza Sicialiano e di Antiveduto Gramatica, entra a servizio presso Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d'Arpino, un famoso pittore tardomanierista che delega il giovane Caravaggio - la cui attitudine all'indagine naturalistica deve apparire già preminente - " a dipinger fiori e frutti". Nella bottega del Cavalier d'Arpino il Merisi si specializza nella pittura di natura morte, genere nel quale l'artista lombardo si dismostra, fin da subito, innovativo. L'attività dei suoi primi anni romani è concentrata soprattutto, nella pittura di scene di genere, la cui cruda immediatezza appare oggi assai lontana dalla necessità di storicizzare il clima culturale che lo attornia. In quegli anni Caravaggio è già un isolato. Viene ricoverato in ospedale per un attacco di malaria di cui lascia testimonianza nel celebre autoritratto del "Bacchino malato" della Galleria Borghese.
Trascorre anni rissosi di vita squallida e di ristrettezze, finchè verso il 1595 l'incontro con il cardinale Francesco Del Monte, che gli accorda il suo favore, ne segna l'elevazione al rango di artista di risalto nel panorama romano. Da quel momento in poi la pittura di Caravaggio, superati gli angusti confini dell'anonimato, diventa un mezzo di dirompente carica innovatrice che sconvolge gli uomini di cultura, gli artisti e il clero.
Le commissioni aumentano di pari passo con gli scandali di cui l'artista si rende protagonista. Le innumerevoli risse, i ferimenti, i duelli, gli scontri, disseminano la sua esistenza. Il clima secentesco dello spagnolismo, dei "bravi", non fa altro che accentuare quella che appare essere, già di per sé, un'indole di natura difficilmente dominabile.
Questa sorta di ricarico emozionale - tangibile anche nelle sue opere - che è per Caravaggio l'esercizio della violenza, culmina nel fatale assassinio, forse preteritenzionale, di Ranuccio Tomassoni da Terni. Le cronache ci dicono che l'alterco divampa a seguito di una partita al gioco della racchetta, disputata ai campi del Muro Torto, sotto Villa Medici, durante la quale Tomassoni vince a Caravaggio la somma di dieci scudi.
L'omicidio lo costringe ad allontanarsi da Roma per sfuggire alle ripercussioni giuridiche del reato. E' il maggio del 1606. Inizialmente l'artista ripara presso i possessi del principe Marzio Colonna situati fra Palestrina, Paliano e Zagarolo. Successivamente si spinge fino a Napoli, sotto la sovranità di un altro governo, mentre i suoi protettori a Roma si muovono per ottenere un'amnistia.
A Napoli rimane per circa un anno, lasciando un segno indelebile nella vita culturale di quella che è, agli inizi del Seicento, una ricca città popolata di aristocratici, borghesi e cortigiani. Poi si imbarca per l'isola di Malta, mosso dal desiderio di ottenere la croce di cavaliere dell'ordine, dove giunge verso la fine del 1607. L'ordine di Malta lo accoglie come cavaliere di Grazia per meriti artistici nel luglio del 1608.
Nell'ottobre dello stesso anno, una commissione criminale riunitasi su istanza di un procuratore cui forse non erano sconosciute le autentiche ragioni della fuga dell'artista di Roma, spinge Caravaggio a fuggire nuovamente. Sbarca in Sicilia, a Siracusa, da cui si muove nei primi mesi del 1609 per raggiungere prima Messina e poi Palermo.
Il Caravaggio del soggiorno siciliano è un uomo sconvolto, ansioso, prostrato. L'attesa del condono papale lo rende inquieto, fin quasi pazzo. L'isola gli appare come uno scenario inadeguato alla sua disperata grandezza. Roma ritorna prepotente in ogni suo pensiero.
E' ancora Napoli ad accoglierlo durante la sua marcia di riavvicinamento a Roma. Nel frattempo un intervento del cardinale Gonzaga riapre la possibilità di una grazia papale che sembra ormai prossima. Ma la malasorte gli riserva ancora un duro schianto il pittore viene assalito e ferito gravemente da emissari maltesi sulla porta della locanda tedesca del Cerriglio in cui alloggia. Le sue condizioni appaiono ai contemporanei tanto gravi da alimentare una voce secondo cui il maestro è morto.
Durante la lunga convalescenza egli trova la forza di dipingere ancora alcuni capolavori come la "Salomè con la testa del Battista" e il tragico  "Davide con la testa di Golia", nel quale adombra, nei tratti del volto decapitato del gigante ucciso, un suo doloro autoritratto. Intorno alla metà del luglio del 1610 si imbarca di nuovo su una feluca dirigendosi verso le coste laziali.
Deve fermarsi a Porto Ercole, presidio spagnolo ai confini dello Stato Pontificio. Caravaggio è subito arrestato per uno scambio di persona. Quando viene liberato la feluca è ripartita. Il Baglione riferisce di quelle ultime ore durante le quali "più la feluca non ritrovava, si che postosi in furia, come disperato andava per quella spiaggia sotto la sferza del sol leone a vedere se poteva in mare ravvisare il vascello che le sue robe portava":

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